venerdì 13 luglio 2012

Sermone del culto giovani, 24 giugno 2012

«Queste sono le parole della lettera che il profeta Geremia mandò da Gerusalemme al residuo degli anziani esiliati, ai sacerdoti, ai profeti e a tutto il popolo che Nabucodonosor aveva deportato da Gerusalemme a Babilonia, dopo che il re Ieconia, la regina, gli eunuchi, i prìncipi di Giuda e di Gerusalemme, i falegnami e i fabbri furono usciti da Gerusalemme. La lettera fu portata per mano di Elasa, figlio di Safan, e di Ghemaria, figlio di Chilchia, che Sedechia, re di Giuda, mandava a Babilonia da Nabucodonosor, re di Babilonia. Essa diceva: «Così parla il SIGNORE degli eserciti, Dio d'Israele, a tutti i deportati che io ho fatto condurre da Gerusalemme a Babilonia: "Costruite case e abitatele; piantate giardini e mangiatene il frutto; prendete mogli e generate figli e figlie; prendete mogli per i vostri figli, date marito alle vostre figlie perché facciano figli e figlie; moltiplicate là dove siete, e non diminuite. Cercate il bene della città dove io vi ho fatti deportare, e pregate il SIGNORE per essa; poiché dal bene di questa dipende il vostro bene". Infatti così dice il SIGNORE degli eserciti, Dio d'Israele: "I vostri profeti, che sono in mezzo a voi, e i vostri indovini non v'ingannino, e non date retta ai sogni che fate. Poiché quelli vi profetizzano falsamente nel mio nome; io non li ho mandati", dice il SIGNORE. Poiché così parla il SIGNORE: "Quando settant'anni saranno compiuti per Babilonia, io vi visiterò e manderò a effetto per voi la mia buona parola facendovi tornare in questo luogo. Infatti io so i pensieri che medito per voi", dice il SIGNORE: "pensieri di pace e non di male, per darvi un avvenire e una speranza. Voi m'invocherete, verrete a pregarmi e io vi esaudirò. Voi mi cercherete e mi troverete, perché mi cercherete con tutto il vostro cuore; io mi lascerò trovare da voi", dice il SIGNORE. "Vi farò tornare dalla vostra prigionia; vi raccoglierò da tutte le nazioni e da tutti i luoghi dove vi ho cacciati", dice il SIGNORE; "vi ricondurrò nel luogo da cui vi ho fatti deportare"» ( Geremia 29: 1-14).

Per comprendere bene il contesto in cui ci muoveremo, bisogna fare una distinzione tra due aspetti importanti: da un lato il periodo storico in cui Geremia scrive, e dall’altro il personaggio Geremia in quanto profeta atipico.
Partiamo dal primo: il libro di Geremia si colloca a cavallo tra il settimo ed il sesto secolo a.C., in una fase di profonda crisi per il popolo ebraico, determinata dall’invasione babilonese, che ha ridotto la Giudea a suo vassallo. Ancora più nello specifico, il testo corrisponde al momento di una prima deportazione da parte dell’imperatore babilonese Nabucodonosor. Ci troviamo sotto il regno di Sedecia, posto sul trono dallo stesso Nabucodonosor che decide di deportare una parte della popolazione, e non una qualsiasi: deporta la classe dirigente e maggiormente produttiva della Giudea. Successivamente, l’imperatore deciderà di distruggere completamente Gerusalemme, facendo uccidere Sedecia e deportando un’altra parte della popolazione.
Oltre a tutto questo, Geremia opera in un momento cruciale per la storia della fede in Dio del popolo: la storia degli Ebrei non si decide più attorno alle vicissitudini delle dodici tribù, ma in relazione agli interessi dei grandi imperi medio-orientali. In questa situazione la fede tradizionale - fondata sui grandi interventi di Dio che sostiene il suo popolo e lo conduce vittorioso in battaglia - entra in profonda crisi. Si profilano quindi due esiti: il primo è la perdita di quella fede; il secondo è l’idolatria, cioè l’adesione alla fede del popolo vincitore.
In questo scenario di mutamenti e sofferenze per il popolo si colloca il percorso profetico di Geremia, Questo profeta è un personaggio molto particolare e ce ne accorgiamo già dai suoi esordi ed in specifico all’inizio del suo libro quando proprio lui, chiamato dalla voce di Dio, risponderà in maniera molto titubante con la celebre frase: “Io non so parlare perché non sono che un ragazzo”.
Ma chi è questo profeta atipico? E perché è passato alla storia come uno dei maggiori profeti? Geremia è “figlio di Chilchia, uno dei sacerdoti che stavano ad Ananot, il paese di Beniamino”. Pronunciando il nome Ananot, la memoria corre a Salomone ed in particolare al versetti 26 del libro primo dei Re: «Poi il re disse al sacerdote Abiatar: “vattene ad Ananot, nelle tue terre, perché tu meriti la morte; ma io non ti farò morire oggi, perché portasti davanti a Davide mio Padre l’arca del Signore, nostro Dio, e partecipasti a tutte le sofferenze di mio padre”».
Torneremo più avanti sul perché riteniamo importante questa citazione.
Personaggio originale, dicevamo, perché è stato portatore di messaggi all’apparenza negativi, sicuramente non semplici da apprezzare, o che per lo meno possiamo definire assai “antipatici” - per usare un eufemismo. Eppure è stato anche capace di venire ascoltato. La sua voce poteva essere soltanto quella di una “Cassandra”, e invece Geremia è riuscito a diventare uno dei più grandi profeti nascondendo piccoli germogli di speranza in un racconto di desolazione e annichilimento.
Dio ha voltato le spalle al suo popolo. Non starà più al suo fianco, anzi, favorirà la sua deportazione. Dio l’ha dato nelle mani di Nabucodonosor.
Ma nonostante queste parole, Geremia è riuscito a non farsi isolare, e a non farsi trattare come un pazzo. Egli anzi, con il passare degli anni, viene preso sempre più sul serio: all’inizio da pochi e poi via via sempre da un maggior numero di persone.
Insomma, per queste sue caratteristiche pare che Geremia sia stato un abile politico. Aveva capito molto bene la forza dei Babilonesi e che non sarebbe stato semplice liberarsi del loro giogo. E appunto, tale è la loro forza che secondo Geremia il Signore stesso sta dietro a Nabucodonosor, usato come strumento per punire un popolo che aveva perso la fede, che l'aveva in qualche modo tradito.
Il popolo avrebbe voluto sentirsi dire che il Signore degli eserciti sarebbe stato al suo fianco e che l'avrebbe aiutato in questa guerra. Ma Geremia è portatore di un messaggio molto lontano da quello dell'establisment ebraica, ancora divisa tra la convinzione di poter resistere e la necessità di trovare un accordo con gli invasori.
Come dicevamo, Geremia proviene da Ananot, dove a suo tempo Abiatar era stato confinato da Salomone: e possibile, seguendo i ragionamenti del teologo Brueggeman, che in questa città si fosse quindi formata una classe sacerdotale di “opposizione” nei confronti dei dignitari di corte e della corona di Giuda, capace di una critica molto forte nei confronti dell'istituzione monarchica. In qualsiasi altro momento storico sarebbe stato impossibile uscire da quella ristretta enclave e predicare a gran voce questa posizione, ma in un momento di grossi turbamenti, Geremia sa imporsi come voce autorevole, non certo senza correre pericoli. Per esempio fu condannato a morte da Ioachim, anche se questa condanna non fu mai eseguita, forse in virtù di alcune sue amicizie importanti - probabilmente nobili ed alti funzionari tra quelli meno allineati al pensiero del re - che egli aveva evidentemente saputo conquistare con il suo modo di fare, e soprattutto con la sua visione.
E questo pone ulteriormente l’accento sulla sua abilità politica a tutto tondo, sia per quanto riguarda i rapporti con élite e con il popolo, sia per la sua visione assai lungimirante e a lungo termine. E' facile dire: “se farete questo - o se non farete  quest’altro - avrete un ritorno immediato”, ma Geremia va oltre, pensando a cosa sarà bene per Israele tra 30, 40, 50 anni e anche molto tempo dopo. Il suo messaggio non si rivolge all’oggi e nemmeno al domani ma pone il popolo eletto nell’ottica di un nuovo rapporto tra le grandi potenze dell’epoca. Una visione Geopolitica assai precisa che prende spunto da un’analisi profonda dei mutamenti in atto in quel periodo.
Ed è precisamente l’andare oltre i meri bisogni impellenti del proprio popolo il vero compito del bravo politico: non semplicemente quello di “tenere i conti a posto” - per fare questo abbiamo capito che ci sono i tecnici! Il politico deve riuscire a creare un sistema che funzioni bene da qui a decine di anni in futuro e che sia in grado di autocorreggersi di fronte alle sue stesse storture.
E tutto questo lo troviamo presente in un Geremia che non ama dire le cose scontate, ma che mette il popolo, ma anche il re e tutta la sua corte, di fronte alle loro singole responsabilità.
Una visione politica a lungo termine, dicevamo, che si concretizza nelle parole che Dio pronuncia per bocca del profeta: “Quando settant’anni saranno compiuti per Babilonia io vi visiterò e manderò a effetto per voi la mia buona parola, facendovi tornare in questo luogo”. Geremia non si ferma a predire il presente - altrimenti non sarebbe un profeta - o un domani molto ravvicinato: si rende perfettamente conto che non basta la constatazione dell’inevitabilità della deportazione, ma che è necessario un messaggio di speranza. Tuttavia riesce ad essere anche molto realistico ponendo un limite temporale che supera almeno le due generazioni. Guardando dunque a un tempo nel quale la forza Babilonese potrebbe essere pesantemente ridimensionata, il sovrano cambiato e le motivazioni della deportazione del popolo venute meno. Ma la visione politica di Geremia non si ferma a queste considerazioni e va ulteriormente avanti: egli detta una linea da seguire affinché effettivamente dopo quest’arco di tempo la profezia possa avverarsi. Il popolo dovrà comportarsi in un ben determinato modo perché si generino le condizioni per il ritorno in patria.
Insomma, altro che “Io non so parlare!”, “Io non sono che un ragazzo”. Osserviamo di certo un grosso e significativo cambiamento rispetto inizi assai titubanti del profeta, sebbene dubbi e inquietudini lo continueranno ad assillare per tutta vita.
Ma oltre ad essere un abile politico, Geremia può essere considerato anche come un grande poeta: la profonda analisi relativa alla condizione del suo popolo ci pone di fronte a quella capacità propria dei poeti, “gli unici capaci di esplorare le profondità della crisi, in quanto si sentono costretti a farlo; gli unici capaci di inabissarsi fin nel cuore, anch’esso turbato, di Dio” (per citare letteralmente Bruggeman).
Curiosamente, però, Bruggeman sostiene che la figura del poeta e quella del politico di norma siano in forte contrapposizione, e saremmo tendenzialmente d’accordo con lui; ma non nel caso di Geremia, che riesce ad avere le caratteristiche di entrambi: la profondità spirituale del poeta e la convincente comunicabilità del politico.
Un tale connubio può essere permesso e sostenuto solo dalla presenza di un Dio che interviene dando forza e sostanza alla sua esistenza. Geremia ha quindi una visione permessa proprio da ciò che Dio gli mostra e descrive ma al contempo anche la forza - e diciamo noi anche l’astuzia - di riuscire a presentarla ad un popolo che si trova in grossa crisi non ristorandolo ma anzi dandogli messaggi molto pesanti. A differenza di quanto afferma Bruggerman, Geremia riesce ad essere sia poeta che, in qualche modo, leader. Tanto leader che addirittura non è necessaria la sua presenza fisica ma il popolo è disposto a seguire le sue indicazioni anche a distanza.
E questo connubio, quello tra politico e poeta, potrebbe essere il significato profondo della missione profetica.
Ma dopo tale ampia - e speriamo esauriente - contestualizzazione, vediamo ora il testo nello specifico.       
Come abbiamo già accennato più volte, il cap. 29 del libro di Geremia raccoglie una lettera, una delle poche dell’Antico Testamento. Lettera che Geremia scrive rivolgendosi a quella classe dirigente che era stata deportata da Nabucodonosor: si tratta di anziani, sacerdoti, profeti, amministratori, artigiani e professionisti, oltre alla regina madre e ai dignitari di Giuda e Gerusalemme. A loro si rivolge per dettare la strategia con cui affrontare il futuro in Babilonia.
“Così parla il Signore, Dio degli eserciti a tutti i deportati che IO ho fatto condurre da Gerusalemme a Bibilonia”. Con questa semplice frase d’introduzione Geremia vuole veicolare due messaggi essenziali. Innanzitutto sottolinea l’autorevolezza delle sue parole che sono direttamente quelle del Signore. In secondo luogo egli afferma, o meglio ricorda, che Dio stesso sta dietro la deportazione e che è quindi inutile lamentarsene.
E subito dopo sono date le istruzioni per vivere la nuova condizione: “Costruite case”, “Piantete Giardini”, Prendete moglie” e “Generate figli e figlie”: insomma stabilizzatevi nella nuova terra. Quindi pronuncia quelle è forse la sua frase più famosa: “Cercate il bene della città dove io vi ho fatti deportare, e pregate per il bene di essa; poiché dal bene di questa dipende il vostro bene”.
“Cercate il bene della città”. Parole incredibili se si pensa alla condizione di un popolo deportato, un popolo che immaginiamo possa solamente odiare il posto dove si trova. Un posto che non è casa. Un luogo che ricorda privazioni e sofferenze.
Eppure quello è anche il posto dove il popolo si trova, e considerato che sarà costretto a soggiornarvi per molto, l’unica cosa intelligente da fare è cercare il suo bene, provare a migliorarlo, persino pregare per esso. Quindi non solo “prendervi possesso”, come suggerito nei versetti 5 e 6, ma proprio lavorare attivamente per esso.
Segue a queste parole la denuncia (ai versetti 8 e 9) dei falsi profeti che dilagavano all’epoca - ad esempio Anania! - e subito dopo, il Signore, per mezzo di Geremia, pronuncia le frasi di speranza che sono il fulcro per una piena accettazione delle prime indicazioni: “Quando settant’anni saranno compiuti per Babilonia io vi visiterò […] facendovi tornare in questo luogo. Infatti io […] medito per voi […] pensieri di pace e non di male”. E ancora: “Voi mi invocherete, verrete a pregarvi e io vi esaudirò. Voi mi cercherete e mi troverete, perché mi cercherete con tutto il vostro cuore; io mi lascerò trovare da voi”. Per finire con la più grande promessa: “Vi ricondurrò dal luogo in cui vi ho fatti deportare”. Quindi, alle indicazioni su come vivere la nuova condizione segue la promessa di un ritorno del Signore al fianco del suo popolo. Una grande promessa, capace, anche nella disperazione, di mantenere quel filo che ha sempre unito Dio a Israele.
A nostro avviso il testo appena letto è la parte centrale del libro di Geremia, o per lo meno quella in cui si concretizza quanto espresso nell’introduzione: la visione poetica e la visione politica che si fondono perfettamente per creare quella profetica. Le parole di Dio che diventano indicazioni e racconto di un mondo completamente diverso e nuovo. Il Signore ha rivoltato il suo popolo come un calzino, l’ha messo in discussione, sconvolgendolo come nulla prima era stato in grado di fare. E il Signore ha scelto Geremia quale interprete di questo cambiamento, leader carismatico in grado di guidare con autorevolezza e passione un mutamento sostanziale nel rapporto tra Dio e il suo popolo.
Ma soffermiamoci un attimo in più sulle parole centrali di questa parte del libro: “Cercate il bene della città”. Frase che possiamo definire dirompente; frase che porta ad una nuova forma di religiosità se non addirittura di religione: una religione civile, non più orientata al culto di un Signore che solo se onorato a dovere - nel culto e nei fatti - sarà a fianco del popolo ed in caso contrario lo condannerà. La nuova religione spinge a cercare il bene della società dove viviamo perché da essa stessa dipende il nostro bene. Nell’ultima sua grande punizione - la deportazione a Babilonia - Dio decide di farsi “piccolo” e contemporaneamente di dare credito al suo popolo, convinto che esso saprà autogestirsi. Beninteso, questa non è la sparizione del Signore, che tornerà affianco del popolo, quanto la consapevolezza data alle genti delle loro responsabilità; la certezza, in sostanza, che loro - e noi tutti - siamo responsabili della società che ci costruiamo intorno. “Dal bene della città dipende il vostro bene”: dal bene della nostra città dipende il nostro stesso bene.
Da questa semplice considerazione, la cui natura è però assolutamente dirompente, viene quasi naturale provare a cogliere il significato per l’oggi delle parole del profeta Geremia. Ma innanzitutto, subito prima della considerazione ovvia che “Cercare il bene della città” può valere in ogni tempo, vorremmo chiederci quali parallelismi potremmo fare tra un popolo esiliato e noi. Crediamo che, come cristiani e in generale credenti, molto spesso passiamo sentirci "esuli" in questo mondo ed in particolare in questo paese: non solo per la cultura cattolica ampiamente diffusa e che sentiamo molto distante dal nostro credo. Ma anche perché chi cattolico non è (e credo che noi giovani ci troviamo spesso a vivere fianco a fianco con persone che si dicono apertamente atee o agnostiche) ci guarda sempre più spesso con ironia se non addirittura con sospetto. Eppure il profeta ci dice chiaramente che anche se esuli, anche se in una terra non nostra, noi dobbiamo lavorare per il bene della città. E quindi dobbiamo contribuire al bene del qui e dell’adesso.
Anche perché la fede per un popolo non si traduce in un’attesa febbrile di un ritorno in patria, ma nel contributo al benessere del mondo in cui vive. Il popolo non deve chiedere di essere strappato da quel mondo, ma piuttosto ne deve far parte, ricercandone il bene. Allora la preghiera del credente sarà per il bene del mondo affinché il mondo sia difeso da se stesso, contro le forze che cospirano contro la sua stessa distruzione. L’azione del credente sarà per la conservazione del mondo in vista del Regno di Dio, in vista di quella liberazione che Dio promette.
Ma quale deve essere l’atteggiamento del credente in questa ricerca del bene, nel rapporto con lo stato e con il prossimo?
Al capitolo 9 versi 23 e 24 Geremia recita: «Così parla il Signore: “Il saggio non si glori della sua saggezza, il forte non si glori della sua forza, il ricco non si glori della sua ricchezza; ma chi si gloria si glori di questo: che ha intelligenza e conosce me, che sono il Signore”».
Come Geremia, il credente deve opporsi alla triade salomonica rappresentata da ricchezza, potere e sapienza, in quanto traiettoria verso la morte.
In questi versi il profeta ci indica un’alternativa: siamo chiamati a praticare:
1) La bontà, o misericordia; significa essere solidali, onorare la parola data, essere affabili in ogni circostanza e nei confronti di chiunque.
2) La giustizia, intesa come era nell’antico testamento mispat, come giustizia distributiva cioè fare in modo che tutti i membri della società abbiano accesso alle risorse e ai beni che permettano una vita dignitosa (ricordiamo le vedove, gli orfani e gli stranieri, spesso citati in tutta la Bibbia)
3) Il diritto, che denota l’intervento attivo nella società, la presa di iniziativa e gli interventi per rimettere in piedi la società; il rispondere ai torti e la riconversione di ogni tipo di attività di disumanizzazione.
Dobbiamo rispettare questa triade perché, sta scritto, “di queste cose mi compiaccio”.
Questa triade è in contrapposizione con quella salomonica, in quanto pratica verso la vita, e non più verso la morte. Nel discorso profetico non c’è compromesso possibile riguardo a questo aut-aut, non esiste terreno comune. E’ una contestazione che al tempo di Geremia metteva in crisi tutti e che oggi rimette in crisi tutti e tutte noi! Lo scopo profetico è quello di invitare chi ascolta a fare ingresso in questa contestazione profonda, una contestazione all’interno della quale possiamo ancora, sempre e di nuovo, prendere decisioni riguardo alla nostra vita comune nel mondo.
Nel vangelo di Matteo c’è scritto “ Nessuno può servire due padroni; perché odierà l’uno o amerà l’altro, o avrà riguardo per l’uno e disprezzo per l’altro. Voi non potete servire Dio e Mammona. Perciò vi dico: non siate in ansia per la vostra vita, di che cosa mangerete o di cosa berrete; né per il vostro corpo di cosa vi vestirete. Non è la vita più del nutrimento, e il corpo più del vestito?” (Cap. 6 versetti 24 e 25).
E poi ancora “Eppure vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, fu vestito come uno di loro”. Salomone! Proprio quello della triade di sapienza, potere e ricchezza!
Dobbiamo quindi essere diversi da Salomone, che si sforza di controllare, di dominare, di creare sicurezza.
Sta scritto ancora: “Cercate prima il Regno e la giustizia di Dio, e tutte queste cose vi saranno date”.
Noi oggi, ancor più del popolo ebraico a quel tempo, abbiamo il compito di conservare il mondo, in modo da permettere la venuta del Regno, promesso da Cristo; anzi, siamo addirittura chiamati a costruirlo! Questo siamo chiamati a fare; e lo si può fare soltanto ricercando il bene della nostra città, hic et nunc; non possiamo credere nella venuta del Regno in maniera passiva, e basta!
Chiediamoci: oggi come viviamo? La risposta è evidente: grazie a sapienza, forza e ricchezza. E non è un discorso politico di uno schieramento ben preciso, no; altrimenti non sapremmo veramente che schieramento effettivamente scegliere….
Vogliamo portare avanti un discorso prettamente biblico, evangelico, di cose che sono contenute nel libro che guida i nostri passi in questo mondo, l’unico schieramento che ci sentiamo di rappresentare!
E questo schieramento può e deve essere rappresentato da tutti noi cristiani. Geremia ci ha insegnato a guardare oltre all’oggi con tutte le sue difficoltà. Ci ha mostrato che il profeta, come politico e poeta deve saper delineare i tratti di un mondo differente. E per questo crediamo che oggi la nuova visione profetica deve essere opera non di un singolo, ma dalla totalità della chiesa, il corpo di Cristo che ha già tracciato la via davanti a noi.
E’ nostro dovere essere profeti, indicando a chiare lettere le difficoltà dell’oggi e provando ad ipotizzare la strada per uscirne.
Geremia dice: “Cercate il bene della città”. Non “Cercate il bene di voi stessi, della vostra chiesa”. Cercare il bene della città significa oggi cercare il bene di questa società, del nostro paese, dell’Europa e del mondo. Il suo bene non significa solo il bene economico, ma anche soprattutto quello ecologico e sociale.
Compito della chiesa non è di certo fare politica, ma quello di profetizzare certamente sì. E’ nostro assoluto dovere guardarci attorno, individuando ciò che non va, denunciandolo, agendo per combatterlo ed elimandolo. Siamo perfettamente consci che a volte è difficile, quasi impossibile. Il lavoro da compiere appare immenso e anche la semplice denuncia è difficile quando si rischia di apparire come “Cassandre”. Geremia ha saputo rischiare e sebbene nessuno di noi abbia la forza di Geremia, tutti insieme possediamo il potere del profeta. Perché come il Signore ha donato ad un timido ragazzo la parola e la saggezza, parimenti, attraverso Gesù Cristo, egli fa lo stesso con noi.
Compito di tutte e tutti noi è annunciare l’Evangelo, mettendo in discussione tutto quello che è stato prima e che è oggi. Mettendo in dubbio le nostre false certezze e convinzioni. Annunciare l’evangelo significa applicarlo al mondo, il quale, sebbene non potrà mai essere perfetto, abbiamo il dovere di rendere migliore, cercando il suo bene.
Concludendo, non vogliamo dimenticare, però, l’ultima parte della lettera, in particolare i versi da 10 a 14, dove è Dio a parlare.
Il Signore parla, e lo fa attraverso una promessa.
Il Signore, riconoscendo la fase di crisi del suo popolo, non lo abbandona, anzi: medita per gli esiliati pensieri di pace affinchè il popolo abbia un avvenire, una speranza. Quindi, nonostante la progressiva perdita di fede e la dilagante idolatria, Dio resta al fianco del suo popolo.
Resta con il suo popolo, attendendo che questo, dall’esilio, Lo preghi, Lo cerchi, Lo invochi; e il Signore si lascerà trovare, nel momento in cui il popolo Lo avrà cercato con tutto il suo cuore.
A quel punto Dio esaudirà le preghiere e manterrà la sua promessa: il ritorno dall’esilio e la liberazione dalla prigionia.
Il Signore qui promette e mantiene, come in tanti altri esempi dell’Antico Testamento (dopo il diluvio Dio fa una promessa a Noè; il Signore promette la liberazione dall’Egitto a Mosè; …..)
E’ importante sottolineare, però, l’importanza che in questo testo ha la ricerca che il popolo deve mettere in atto affinchè il Signore realizzi la promessa: pregare Dio con tutto il cuore.
Allora, cari fratelli e care sorelle, ricerchiamo il bene della città attivamente, ma senza dimenticarci di ricercare Dio con tutto il nostro cuore; preghiamolo, cerchiamolo, invochiamolo; chiediamogli di esserci vicino e di realizzare la promessa che ha fatto a noi.
Non dimentichiamo che è Lui il creatore di tutte le cose, e che spetta quindi a Lui la realizzazione delle promesse che fa.
L’ultima azione è affidata a Dio. Noi possiamo lavorare per la conservazione e la costruzione del Regno; a questo siamo chiamati, sì; ma siamo chiamati anche a rivolgerci con tutto il cuore a Lui.
Se noi lo cerchiamo e rimaniamo ancorati alla sua Parola con tutto il nostro cuore, allora sì, ci donerà la realizzazione della promessa più grande: il ritorno di Suo figlio Gesù, la salvezza di tutti i credenti e la venuta del Nuovo Regno.

Amen!

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